(
Kritik der praktischen Vernunft). Opera di
Kant, pubblicata nel 1788. Costruita sulla falsariga della
Critica della
ragion pura, indaga la possibilità di una sintesi a priori morale, di
una morale, cioè, che abbia valore necessario e universale. La ragione,
che di per sé non è teoretica ma lo diventa con il concorso e
insieme la limitazione della sensibilità, è invece per sua natura
pratica, cioè determinante la volontà di agire. L'uomo, in quanto
ente ragionevole finito, agisce in base a principi: quando essi sono meramente
soggettivi (anche se generali, cioè valevoli nella maggior parte delle
situazioni) si chiamano
massime, quando sono dotati di validità
oggettiva (capaci cioè di determinare all'azione ogni essere razionale)
sono chiamati
leggi morali. Tali principi sono avvertiti dall'uomo come
imperativi, cioè come doveri anche quando in contrasto con le
inclinazioni: quando presuppongono il desiderio di raggiungere lo scopo, sono
ipotetici, quando esprimono un comando assoluto, a prescindere dallo
scopo, sono
categorici. Legge morale è solo quella che comanda
senza condizioni, in quanto se presupponesse un desiderio del soggetto, non
sarebbe morale ma egoistica. Tuttavia, qualsiasi principio pratico che si
riferisca ad un oggetto della volizione è necessariamente ipotetico,
perché deve presupporre il desiderio dell'oggetto. Occorre dunque che la
legge morale abbia valore non per il suo contenuto ma per la sua forma, che deve
essere universale e necessaria, di modo che l'imperativo categorico suona:
"Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere come
principio di legge universale". Ora una volontà che agisce in forza della
sola forma della legge, è una volontà libera, cioè non
determinata o asservita ad uno scopo egoistico, e, reciprocamente, solo la forma
delle legge può determinare all'azione una volontà sciolta dagli
stimoli dei sensi. La libertà, che per la ragion pura rimaneva possibile
ma non dimostrabile, acquista realtà oggettiva dall'esistenza in noi
della legge morale, "fatto della ragione" che ci rende certi della
libertà. Solo il riconoscimento della legge ci rende consapevoli della
libertà: "tu devi, quindi puoi". La ragione, in quanto legislatrice della
legge morale per la sua forma universale, è fonte e garanzia della
autonomia di questa: ne discende una volontà libera in quanto
auotodeterminazione razionale spontanea e insieme indipendente da qualsiasi
inclinazione verso un dato oggetto. La
C., relativa a un mondo governato
da leggi che la volontà si dà liberamente, estende il campo della
ragione che per la
Critica della ragion pura era limitato solo al mondo
fenomenico, regolato da leggi empiriche determinate. Tale morale formale e
autonoma si contrappone alle altre materiali ed eteronome in cui l'azione morale
non è fine a se stessa, ma ha un fine esterno (ad esempio nel
soddisfacimento del benessere, o della perfezione o della volontà
divina). L'oggetto dell'azione morale è il bene, ma esso non può
essere determinato prima della legge morale, come nelle morali eteronome, ma
piuttosto per mezzo di questa. Infatti non è l'azione buona a doversi
conformare ad un bene, ma è questo a sorgere dall'azione buona. Un'azione
è morale se è determinata dalla sola legge morale e non da
un'inclinazione soggettiva, diversamente anche se appare conforme al dovere
è solo azione legale e non morale. La legge morale dunque si pone sempre
in alternativa rispetto alle inclinazioni naturali anche se può non
contraddirle: l'essenziale è che l'eventuale soddisfazione delle
inclinazioni sia conseguenza dell'azione buona e non sua causa. Se il virtuoso
è degno di felicità, non è però immediatamente
conseguente che egli ne partecipi. Il bene supremo infatti, cioè la
virtù in quanto obbedienza alla legge morale, non esaurisce tutto il bene
cui l'uomo virtuoso può aspirare, dal momento che virtù e
felicità sono termini che non si contengono l'un l'altro. Ora, mentre
è assolutamente falso che la felicità sia causa di virtù,
è falso solo in relazione al mondo fenomenico che la virtù sia
causa di felicità. Perché tale proposizione sia considerata vera,
bisogna ammettere un progressivo e infinito perfezionarsi della volontà
da buona a santa (cioè non più esposta al contrasto fra
virtù e inclinazioni), vale a dire l'esistenza infinita dell'anima, e
l'esistenza di un Dio giusto e onnipotente che adegui la felicità ai
meriti. Questi due concetti eminentemente metafisici (anima immortale e Dio
onnipotente), che la teoretica aveva catalogati come inattingibili perché
indimostrabili empiricamente, acquistano per la ragion pratica il valore di
postulati, in quanto esigenze della giustizia morale. Si rivela così il
primato della ragione pratica su quella teoretica a causa del suo superiore
interesse e si nota quanto sia provvidenziale il limite che la natura pone alla
conoscenza della ragione. Se infatti l'uomo potesse attingere empiricamente e
perciò teoreticamente i postulati dell'immortalità dell'anima e
dell'esistenza di Dio, non potrebbe agire moralmente, cioè
disinteressatamente, ma solo inclinando all'egoistico interesse di un sicuro
premio. La concezione religiosa kantiana è fondata su questa etica
formale e autonoma del dovere e ricondotta nei limiti della semplice ragione
pratica. La religione diventa così conoscenza che tutti i doveri sono
comandi divini in virtù del loro imperativo categorico, non in quanto
ordini emessi da una volontà esterna: in questo caso si ricadrebbe
infatti in una morale di tipo eteronomo. Ne consegue l'esistenza di un'unica e
sola religione morale e universale cui aderiscono tutti coloro che adorano Dio
in modo incondizionato. Immensa è stata l'influenza su tutto il pensiero
filosofico di questa grande opera, attraverso la quale si acquisì
definitivamente il concetto dell'impossibilità di un'etica materiale.